Steve Vai: quando con Frank Zappa suonai Arrivederci Roma

Lui è il guitar hero per antonomasia, un punto di riferimento per i chitarristi di tutto il mondo. Frank Zappa lo arruolò perché quel ragazzino era l’unico in grado di trascrivere le sue folli partiture, e suonava come un diavolo.

Da allora Steve Vai ha dato l’impronta al suono di David Lee Roth, Alcatrazz, Whitesnake, si è creato una lunga carriera solista con sue composizioni e ha allargato il suo pubblico unendo alle doti pirotecniche quelle di intrattenitore dal vivo. Torna in Italia per tre concerti (10 novembre Padova, 11 Roma e 12 Milano), anche molto cantati e con un inedito set acustico, sulla scia dell’ultimo cd The Story Of Light, secondo capitolo della trilogia The Real Illusion. Disciplina, esercizi, meditazione. Mr Vai, lei è l’antitesi del chitarrista sesso, droga e rock ‘n’ roll. «Sin da ragazzino la cosa che mi veniva naturale era la musica, la sua costruzione, le sue infrastruttur. Era nella mia testa prima ancora di poterla realizzare. A suonare non ero fluido, ci sono diventato col sacrificio e lo zen. La mia idea di divertimento da 34 anni a questa parte (ora ne ha 52, ndr)è solo suonare tanto e da lucido. Nessuno farebbe un reality su di me: la mia giornata è noiosissima».

La chitarra è ancora uno strumento portante nel rock? Gli assoli sono quasi spariti dalle canzoni… «Va ad ondate, ma non sparirà mai. Per me è l’unica cosa che conta al mondo e non mi importa se è di moda o no. Non cerco il grande pubblico, faccio del mio meglio e la gente viene a me. Non sono accessibile a tutti né rivoluzionario come Hendrix o Page, ho solo un grande impatto di una vasta comunità di persone» Jimmy Page le ha cambiato la vita? «Sentii un disco dei Led Zeppelin e capii che tipo di rockstar avrei voluto essere. Page sapeva catturare un sound come nessun altro. Ma non sono fissato coi chitarristi, infatti il mio artista preferito è Tom Waits, che è tutt’uno con l’espressione creativa e non fa compromessi. Oggi mi sento tanto chitarrista quanto autore, dopo il tour mi chiudo in studio e compongo una sinfonia per lo Stravinsky Festival del 2013 in Olanda».

Sul web la chitarra oggi viene suonata a mo’ di percussione, violino, tastiera. Ha perso il suo uso tradizionale? «Non c’è niente di male a seguire la marcia dell’evoluzione. Anch’io esploro perché l’avanguardia fa presto a diventare tradizione. Senza però dimenticare che è bellissimo infilare un jack e semplicemente suonare». Ha fatto incursioni nel pop con Nelly Furtado e Eros Ramazzotti. Altre collaborazioni in vista? «No, nella mia musica non c’è democrazia. Ogni cosa deve essere come dico io». Nella vita però è un democratico convinto. «Obama sento che parla col cuore, o perlomeno il massimo di cuore che un politico può avere. Durante i dibattiti in Romney vedo la mente di un uomo, in Barack l’anima».

A luglio ha ricevuto la cittadinanza onoraria a Dorno, nel Pavese. In Italia si sente a casa? «Sì, è stato un giorno speciale. Ho visto dove sono nati i miei nonni, vivevano a pochi passi l’uno dall’altro ma si incontrarono solo da emigrati a New York. Nella cantina avevamo le botti di vino, da bambino nonno mi metteva sulle ginocchia e cantava canzoni italiane, la domenica si facevano grandi tavolate e il giovedì gnocchi». La sua prima volta qui è stata con Frank Zappa nel 1982.

Che ricordo ha? «Zappa mi ha insegnato il valore dell’indipendenza. Era imprevedibile e sul palco non sapevi mai cosa aspettarti. A Roma mi ritrovai a suonare con lui Arrivederci Roma e ancora rido»

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